Cresce l'opposizione a Orban. Migliaia in piazza
È stata, tra le manifestazioni popolari di questi giorni, quella nettamente più imponente. Centomila cittadini, secondo gli organizzatori, sono scesi in piazza a Budapest. Lunedì sera. Tutti a protestare, ancora una volta, contro la nuova Costituzione ungherese, voluta da Viktor Orban, primo ministro e numero uno della Fidesz, il partito che grazie all’abbuffata di voti ottenuta nell’aprile 2010 detiene più dei due terzi dei seggi parlamentari.
La Carta, entrata in vigore il primo gennaio, contiene molte disposizioni controverse, che Ue e Stati Uniti hanno apertamente criticato. Si ripone un forte accento sull’ungheresità, sui richiami alla tradizione cattolica, sulla difesa della vita e della famiglia, intesa nella sua accezione classica: uomo e donna. Si limitano altresì i poteri e le funzioni della corte costituzionale, che non potrà più, salvo casi eccezionali, giudicare le leggi su tasse e bilancio.
La Costituzione è una miscela di conservatorismo e populismo, hanno detto gli analisti, che riflette lo spirito di rottura propugnato da Orban.
Il quale, un po’ come tentarono di fare i gemelli Kaczynski in Polonia, intende timbrare la fine della transizione, a modo suo. Tale volontà emerge peraltro dalla nuova denominazione costituzionale del paese: non più repubblica d’Ungheria, ma Ungheria e basta (nel testo viene però confermata la forma di stato repubblicana).
Le opposizioni hanno gridato allo scandalo.
Un’altra questione spigolosa presente nella magna charta, che va a sostituire quella di epoca comunista, più volte emendata dall’89, ma mai rottamata, riguarda inoltre la responsabilità nazionale nei confronti del destino – sta scritto proprio così – dei magiari che vivono all’estero. Cosa, questa, che potrebbe essere percepita come un’ingerenza da parte di paesi quali Serbia, Romania e Slovacchia, specialmente questi ultimi due, dove il dialogo tra le rispettive maggioranze etniche e la componente ungherese è spesso difficoltoso.
Cesare fuori dall’Europa
Ma non è solo la “rivoluzione costituzionale”, come l’ha definita Paul Krugman sul New York Times, a suscitare perplessità. È tutta l’azione di Orban che presenta provvedimenti e misure dal sapore, viene da dire, “cesarista”.
Alcuni sono orientati a diminuire gli spazi di manovra di organismi indipendenti. Anche la Banca centrale, alla stregua della Corte suprema, ha subito una limitazione delle proprie funzioni. Senza contare la nuova legge sui media, approvata nei mesi scorsi, che prevede, a sentire i detrattori, intrusioni eccessive da parte dell’esecutivo nel sistema dell’informazione.
Forse è esagerato sostenere, come ha fatto l’ambasciatore americano a Budapest, Mark Palmer, che l’Ungheria rischia di essere sbattuta fuori dall’Europa. Ma di certo c’è che Orban – ormai lo chiamano tutti “Viktator”, accusandolo di nutrire ambizioni autoritarie – ha raffreddato la democrazia.
E lunedì la piazza s’è scaldata.
«Finalmente la gente s’è mobilitata», dice a Europa Julia Vasarhelyi, ex giornalista del settimanale Hvg e figlia di Miklos Vasarhelyi, uno degli uomini dell’entourage di Imre Nagy, il protagonista sfortunato della sollevazione popolare del 1956, stroncata dai carri armati dell’Armata rossa.
«La manifestazione, con la società civile assoluta protagonista, è stata imponente – aggiunge Vasarhelyi, che era in piazza – e dimostra che gli ungheresi, anche quelli che hanno votato Orban, hanno la forza di dire “no” a questo programma politico. Ma forse è troppo tardi. Bisognava mobilitarsi prima e anche Stati Uniti e Ue dovevano esibire con maggiore forza le loro preoccupazioni. Dobbiamo poi tenere conto del fatto che parecchie persone si sono attivate perché esasperate dall’attuale situazione economica».
Crisi nera
Lo stato dell’economia, in effetti, è quello che è. L’Ungheria è stata messa a dura prova dalla crisi e ha un debito pubblico altissimo, eredità ingombrante del “socialismo del goulash” (tolleranza e allegra gestione delle finanze pubbliche in cambio di consenso) promosso da Janos Kadar dopo la repressione del ’56. Redditi e consumi sono in discesa. «Il paese s’è impoverito e se dovessimo crollare sarebbe la fine.
L’Ungheria non ha grandi risorse, è una nazione importatrice di energia e prodotti».
Nel 2008 Budapest ottenne un prestito da Fmi e Ue. Quando Orban è salito al potere il rinnovo è saltato.
Il primo ministro ha giudicato troppe severe le misure richieste da Fondo monetario e Bruxelles, dando il via a una politica economica – fondata su ridistribuzione e crescita – non allineata ai criteri che attualmente ispirano i prestatori internazionali.
Autarchica, è stata bollata. È così che sono scattati provvedimenti poco ortodossi, il principale dei quali è stata la maxitassa nei confronti dei grandi gruppi stranieri (che hanno fatto ricorso in sede comunitaria) operanti in comparti chiave quali credito, distribuzione alimentare e telecomunicazioni.
La ricetta, comunque, non ha portato i frutti sperati. Tanto che Orban è stato costretto a prospettare la riapertura della linea di credito. Ma l’Fmi vorrebbe l’allineamento ai suoi criteri.
Si spalanca, adesso, un bivio. Se Orban rifiuta l’Ungheria va giù; se accetta sconfessa le sue idee. Già comunque incrinate. «Il consenso del primo ministro è in picchiata. Il suo progetto ha peggiorato la nostra democrazia, ma sembra esaurito, almeno a livello di consenso», ragiona Julia Vasarhelyi.
Consenso in picchiata
Si pensa già a nuovi scenari e qualcuno paventa il voto, anche sulla base dei movimenti che s’avvertono sul fronte sinistro dello scacchiere politico. L’ex primo ministro socialista Ferenc Gyurcsany ha fondato un nuovo partito, Coalizione democratica. Mentre il suo successore, Gordon Bajnai, starebbe cercando di federare tutto l’arco liberal-socialista.
Ma le elezioni sono un’incognita. Forse la resurrezione delle forze progressiste è prematura, considerati i magrissimi risultati della legislatura 2006-2010, la riduzione ai minimi termini di socialisti e i liberaldemocratici (alleati di governo tra il 2002 e il 2006) alle legislative e il poco credito di cui gode Gyurcsany, che nel 2006, varando una manovra lacrime e sangue dopo le vacue promesse elettorali, fu oggetto di una dura contestazione popolare. «Se si votasse non saprei quello che potrà accadere», asserisce Julia Vasarhelyi, secondo cui la soluzione migliore, anch’essa inserita in queste settimane nella rosa delle possibilità, sarebbe l’esecutivo tecnico.
Più a destra di così
Intanto Jobbik, partito di estrema destra, espressione di una forma radicale di nazionalismo che come riportano le cronache tracima in talune occasioni in xenofobia, omofobia, antisemitismo e nostalgia nei confronti della “Grande Ungheria”, smembrata con il Trattato di Trianon al termine della Prima guerra mondiale, continua a salire nei sondaggi.
Avrebbe sfondato addirittura il muro del venti per cento, dopo il sedici per cento ottenuto alle elezioni del 2010. Il declino di Orban e la convalescenza delle forze progressiste, mescolati alla crisi economica e alla crescente intolleranza crescente verso i rom (quasi il dieci per cento della popolazione), possono mettere le ali a questa formazione.
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